Opinioni in Corso's Blog

Turbinio di Pensieri Scomposti

La Sciarpa

di Gaetano Barbagallo

Il vialetto del giardino, lo stesso che percorreva ogni mattina, gli apparve stranamente bello quel giorno. Le foglie dell’acero che aveva piantato due anni fa, ora coloravano il grigiore del muretto in cemento e il battuto di terra che portava al garage, aveva assunto una gradazione più naturale. Quella vista lo mise di buon umore. Aprì la porta del garage e si diresse verso la macchina. Sistemò la giacca, adagiandola lungo il sedile posteriore. Si rese conto che mancava qualcosa. Controllò nella borsa, ma non c’era. Ripercorse la stanza mentalmente e credette di vederla sulla sedia. Valutando il ritardo che avrebbe accumulato, decise di partire senza. Arrivò con largo anticipo al parcheggio del centro congressi, dove si sarebbe svolta la convention. Spense la macchina e attese qualche istante appoggiando la testa sul volante. Scese e subito, malgrado il sole accecasse tutto, una folata di vento gelido lo investì. Si strinse nelle spalle e sollevando il collo del cappotto, in una mano la borsa e nell’altra la cartelletta, si allontanò. All’ingresso c’erano delle provate hostess in divisa che davano il benvenuto agli ospiti. Ritiravano l’invito e indicavano la sala preposta, senza troppi convenevoli. Il maltempo aveva causato parecchi ritardi ai treni e buona parte dei partecipanti, i cui interventi erano in programma, non era ancora arrivata. Fu così fatta una comunicazione che i lavori sarebbero iniziati con leggero ritardo rispetto all’orario convenuto. Guardandosi intorno per la sala semivuota, pensò che non sarebbe rimasto lì ad aspettare. Decise che qualcosa di caldo gli avrebbe giovato. Alzandosi dal suo posto, lasciò sulla poltrona il cappotto, aggiustò la giacca, stiracchiò i pantaloni e uscì. Percorse lo stesso corridoio che aveva imboccato all’ingresso e affidandosi all’intuito, non appena il tintinnio di tazzine si fece più intenso, capì che doveva essere vicino. Il bar si trovava esattamente dalla parte opposta all’ala che ospitava la sala conferenze. Aveva smesso di bere caffè da quando un attacco di panico lo aveva sorpreso durante una lezione. Attribuì la colpa ai troppi espressi consumati nell’arco della mattina. La noia gli faceva assumere caffeina. Proseguì lunga la vetrata che lastricava il luminoso corridoio che portava al bar e guardatosi attorno, entrò. La saletta, pressoché vuota, incorniciava la barista, intenta ad asciugare delle tazze con un canovaccio che non pagò particolare attenzione al suo ingresso. Si avvicinò al bancone nella speranza di essere intravisto, ma fu deluso. Un colpetto di tosse lo levò dall’imbarazzo. La ragazza, meccanicamente, alzò lo sguardo verso di lui e accennò un timido sorriso, assorta ancora nei suoi pensieri, esclamando «prego». La fissò intensamente, ma non capì perché. Chiese un decaffeinato. Appoggiò i gomiti sul bancone e aspettò che fosse pronto. La guardava muoversi alla macchina dell’espresso. Qualcosa di lei, lo lasciava stranito. Al di là delle vetrate, si intravedeva il parcheggio, la sua Audi grigio metallizzato, brillava per le raffiche di pioggiarellina che le si abbattevano contro. Notò che dei posti, nel frattempo, si erano riempiti. Rischiava di tornare in ritardo. La cosa, stranamente, non lo turbò. Il rumore del piattino sul bancone lo riporto al bar e accoltolo con un sorriso di circostanza, ringraziò la ragazza. Appariva molto giovane, malgrado a lui non sembrasse per nulla una ragazzina. Quell’aria così malinconicamente malcelata, gli faceva provare tristezza. La tentazione di parlarle ebbe la meglio. «Sembra una bella giornata, in realtà il freddo si fa sentire più di prima» fu l’unica cosa, apparentemente sensata, che riuscì a dire. Abbassò lo sguardo verso la tazzina e iniziò a girare il cucchiaino. «Già» rispose lei, «il freddo è l’inverno dell’anima» aggiunse, appoggiandosi al bancone, «Ci chiediamo a volte perché arrivi» diceva con gli occhi fissi verso il parcheggio «ma non ci rendiamo conto che, forse, non ne potremmo fare a meno» concluse. Con profondo stupore si girò per guardarla, ma lei era ancora con lo sguardo fisso fuori dalle vetrate. Si frugò nelle tasche, tirò fuori degli spiccioli e pagò il caffè. Con la mano alzata fece un cenno uscendo dal bar. «Arrivederci» fu l’unica cosa che si aspettava e che credette di udire varcando la soglia. Si affrettò lungo il corridoio che già risuonava di voci al microfono, pensando al suo ingresso e a quanto sarebbe arrossito. Una hostess vedendolo arrivare, con le mani a ventaglio, gli fece cenno di sbrigarsi. La conferenza era iniziata.

***

Un flebile raggio di sole aveva trovato uno spiraglio nella tenda e illuminando il cuscino la costrinse a girarsi dall’altra parte. Lentamente aprì gli occhi e guardò il soffitto che si illuminava di bagliore mattutino. Amava svegliarsi così. Non aveva mai sopportato l’inverno. Quel sole e quel tepore di fine dicembre le infondevano voglia di vivere. I lunghi capelli neri segnavano la scia della testa sul cuscino. Giratasi verso la finestra, inizio pian piano a disegnare cerchi per imprigionare il raggio di sole. Un colpo di tosse la distrasse dal gioco. Si mise a sedere sul letto e senza bisogno di indossare le calze, sfidò il pavimento freddo sino al corridoio. Bussò alla porta di Maria, la sua coinquilina, ma la risposta fu un altro colpo di tosse. Decise di entrare e la trovò avvolta nelle coperte, congestionata e febbricitante. «Sto malissimo» disse «ma devo andare a lavoro». Lei la stava ancora guardando dalla porta e trovando riparo su un angolo del letto disse «Non puoi andare a lavoro. Non in queste condizioni» tirando i piedi sulla coperta, «Non posso permettermelo, dovevo avvertire almeno un’ora fa» stringendosi nelle coperte. «Sei al bar del centro congressi, vero?» chiese «ci vado io, tu resta a letto e riposa». Richiuse la porta dietro di sé e andò a fare colazione. Non era la prima volta che sostituiva la sua compagna e probabilmente non sarebbe stata l’ultima. Ma era fatta così, non si faceva chiedere le cose, le anticipava. La cucina, satura di luce, la costrinse a portare un braccio sugli occhi ancora socchiusi. Entrò e facendosi avvolgere dal sole che filtrava dalle tende alle sue spalle, mise su il caffè.

***

Si era svegliato presto quella mattina. In realtà lo faceva spesso. Permetteva alla sua sveglia di suonare almeno venti minuti prima del tempo necessario a prepararsi. Era così. Non sopportava di dover trascurare qualche particolare prima di uscire. In fondo le levate mattutine lo facevano sentire vivo Bastava radersi e scegliere con cura la camicia da indossare. Il resto era già pronto dalla sera prima. Scelse quella a righe blu, che dava un tono al colorito spento che di solito si portava dietro. Dopo aver controllato che in tasca non mancasse nulla, prese le chiavi dal retro della porta e, chiusala delicatamente, uscì. Attraversò l’ingresso che portava alle scale e, imboccatele, ebbe l’istinto di portarsi una mano alla bocca L’odore di pietra umida lo aveva investito subito, «ci sarà pure un prodotto contro questa dannata umidità» pensò mentre si preparava ad attraversare il giardino. Il sole lo investì, abbagliandolo. Prese gli occhiali dal portaoggetti, e li indossò. La strada, già molto affollata a quell’ora, era asciutta e il gelo dei giorni precedenti non ne aveva pregiudicato la viabilità. La cosa lo rincuorò. Il pensiero di poter trovare impedimenti che lo potessero rallentare lo terrorizzava. Il ritardo era il suo pensiero fisso. Un paio di curve prima di ritrovarsi sulla scorrevole, in realtà una strada come tante ma priva di un numero eccessivo di curve, fu costretto a rallentare per una coda che si era formata in prossimità di un passaggio a livello. Sospirò non appena la macchina fu vicina al paraurti di quella davanti. Accese l’ennesima sigaretta mattutina e aspettò che passasse il treno.

***

Quel leggero tratto di matita negli occhi, le conferiva un’aria dimessa. Non amava truccarsi eccessivamente, solo delineare lo sguardo. Guardò distrattamente l’orologio in cucina mentre tornava in camera a cambiarsi. Nulla di stravagante, indossò dei pantaloni neri, un maglione e fu pronta. Il tè lasciato a raffreddare sul tavolo, disegnava ormai flebili cerchi e spirali nell’aria fredda della cucina. Lo portò a Maria, che nel frattempo si era riaddormentata, le diede un bacio e uscì. Decise che avrebbe attraversato il quartiere a piedi fino in stazione. Il sole riempiva le strade di luce, ma il freddo sembrava ancor più pungente quella mattina. Dopo l’archetto che da casa sua portava direttamente sulla strada principale, dove la mattina prendeva l’autobus per l’università, incontrò una collega. Un rapido saluto con la mano e fu subito dall’altra parte. Non amava parlare, almeno la mattina. Proseguì in salita, tra lo strombazzare delle auto in coda, un lungo tratto di strada, con il sole che la feriva e la sanava, filtrando tra le fronde del viale alberato. Si strinse nel cappottino, sistemò la sciarpa e si preparò ad attraversare. In prossimità delle strisce pedonali, con la testa che si muoveva, ritmicamente, a sinistra e a destra, una macchina le si accostò vicino. Roberto, Roby come lo chiamava lei, le si era fermato accanto. Lei sorrise per lo stupore di quello strano incontro. Lui fece cenno di salire e allungatosi verso la maniglia, aprì la portiera. Si guardò intorno come alla ricerca di qualcosa, entrò e ringraziò per il passaggio. Nutriva ammirazione e attrazione al tempo stesso, verso quel ragazzone a cui pensava da un po’ di tempo. Ricordava ancora ogni parola del discorso che aveva tenuto in occasione delle sollevazioni studentesche dello scorso anno. Era un leader e lei lo sapeva. Non aveva mai trovato l’occasione, o forse non l’aveva mai cercata, per poter approfondire la loro conoscenza. Percorsero il lungo vialone prima che lei, trasognante, gli comunicasse la destinazione. «Vado al De Luca» disse «sostituisco Maria che sta male». Si accorse però della strana espressione sul suo viso, come se nelle sue parole qualcosa lo avesse turbato. In preda all’imbarazzo aggiunse, ostentando un sorriso, «Tranquillo, puoi lasciarmi al passaggio a livello. Da lì, passa un autobus ogni 20 minuti». Lui dal canto suo non replicò, guardò dritto di fronte a se per circa venti secondi senza dire una parola e poi esclamò con tono grave «Io e Maria ci stiamo frequentando», mentre svoltava verso il passaggio a livello. Lei fissò il cruscotto che sembrava essere diventato di ghiaccio, girò lo sguardo verso il ragazzo e trattenendo il fiato, come un palloncino che si sgonfia, lentamente si sforzò di dire «Dai! È una bella notizia» scandendo le ultime sillabe con tutta la tristezza che aveva in corpo. La testa incominciò a pulsarle, i pensieri si sovrapponevano. Maria e Roby insieme. La ragazza con la febbre, semimorente a letto, che stava insieme alla persona che gli sedeva accanto. Quando era successo tutto questo? Quando le sue confidenze erano diventate realtà per altre persone? «Tutto bene? Sembri sconvolta» disse lui, interrompendo il flusso di immagini e pensieri che le passavano in testa «Si si, è solo che sono un po’ in ritardo. Il treno sta passando, grazie Roby, scendo qui» «Alessandra aspetta!» fece lui. Ma non abbastanza in tempo. Lei aprì la portiera della macchina e in fretta, com’era salita, scese di scatto senza neppure chiudersi il capotto. Nella foga la sua sciarpa, per tre quarti all’interno del risvolto del colletto, scivolò in terra. Chiuse la portiera e si avviò verso il marciapiede senza voltarsi. Una macchina suonò il clacson. Era passato il treno.

Tirò una boccata profonda, gli piaceva fumare, soprattutto al mattino. Nella macchina intravide una coppietta che sembrava litigare. Il suo pensiero corse subito a lei. Una fitta lo prese allo stomaco. Non si perdonava quella litigata prima della sua morte. Anche se in cuor suo sapeva di averla sposata solo per non deludere la sua famiglia. Nutriva verso il ricordo di quella donna, che non si era ancora abituato a chiamare moglie, un affetto speciale. Lo avrebbe voluto intensamente, l’aver provato un sentimento forte nei suoi confronti, ma non era così. Lo sapeva. Fu distratto all’improvviso dalla scena che si consumava sotto i suoi occhi. Lei visibilmente sconvolta che scende dalla macchina e corre via senza nemmeno accorgersi di aver perso la sciarpa. <<Avranno sicuramente litigato>> pensò. Quella figura di ragazza di spalle, che si allontanava, aveva qualcosa che lo affascinava. Un brivido lungo la schiena, lo fece sobbalzare in macchina, come quando si sogna di cadere. E il tizio in macchina, non cercava di fermarla. Non scendeva a riprendersela. Ripartito senza alcuna reazione. Fu un momento. Aprì la portiera, scese e recuperò la sciarpa. Tentò di chiamare la ragazza, ma era già distante. Le macchine dietro la sua, intonarono una serie di ululati. Pretendevano di passare e lui dovette tornare indietro. Accese la macchina a partì. Appoggiò la sciarpa sul sedile, costeggiò il marciapiede che aveva preso la ragazza. Qualche colpo di clacson ma lei non se ne accorse. La strada proseguiva in altra direzione e non c’era modo di fermarsi. Appoggiò la sciarpa sul sedile e proseguì il viaggio. Un dubbio lo tormentava: perché si era premurato a scendere dalla macchina per recuperare quella sciarpa? Solo un gesto di cortesia? Era sorpreso da se stesso, quel tipo di azioni non rientravano nel suo modo di operare. Allungò la mano e prendendo la sciarpa se la portò al viso. Tirò un lungo respiro attraverso di essa, quasi annusasse dell’etere. Vide un corpo di donna. Sentì i capelli appena lavati accarezzargli le guance, ed un misto di provocanti odori lo fece trasalire. <<No! Basta>> pensò. Gettò la sciarpa dietro di sé, mise la freccia ed entrò nel parcheggio.

***

Il marciapiede, sul cui ciglio si intravedeva l’edera, sopravvissuta al gelo, tentare di superarne il limite, sembrava averle trattenuto i piedi. Cercava un giustificazione all’atteggiamento che aveva avuto in macchina. In fondo, perché prendersela? Non era forse stata proprio lei, quando le fu chiesto direttamente, ad affermare che <<No, non mi interessa più di tanto>>. Ora un sentimento di rabbia mista a delusione, le scorreva dentro senza trovare una via di fuga. Si fermò, alzò lo sguardo oltre la pensilina della fermata. Espirò profondamente e si sedette. L’autobus arrivò in orario e inghiottendola la portò verso la sua meta. La porta di servizio che dava sul retro del centro era aperta. Si diresse verso gli spogliatoi. Lasciò cadere il cappottino sulla sedia e tolto il maglione, indossò la parte superiore della divisa da lavoro. Non si accorse che aveva perso la sciarpa, ma la sensazione che qualcosa le mancasse, quella l’aveva avvertita. Andò verso il bar che attendeva solo di essere aperto. Controllò che le scorte di caffè fossero nei cassetti. Mancava il decaffeinato. Pensò che non sarebbe stato un problema. Almeno non suo.

***

Percorse gli ultimi metri del corridoio quasi di corsa. Entrò nella sala, si aggiustò la giacca e con tutto il coraggio che aveva in corpo cercò di non badare alla platea che, nel frattempo, si era riempita, raggiungendo il suo posto. Una litania di interventi aveva invaso la sala, ma lui non ci badava, la testa iniziò a girargli e per poco non svenne. <<Sarà stata la corsa>> pensò, <<in fondo ho preso solo un decaffeinato>>. Questo lo riportò all’episodio del bar, alla barista. Già la barista. Perché quel discorso sull’inverno dell’anima? Cosa le ricordava o chi? Iniziò a pensarci sopra, quando improvvisamente, si sentì il cuore accelerare. Le immagini lo investivano in un’alternanza di passato e futuro. Moglie, ragazza, sciarpa. L’aria della sala non gli bastava, ma non poteva andarsene. I lavori della plenaria sarebbero durati fino alle undici, poi ci sarebbe stato il break per il pranzo. Un vicino di posto, gli chiese se stesse bene, vedendolo leggermente piegato in avanti. Fece segno di si con il capo e poi con decisione si alzò. L’oratore, che in quel momento stava parlando, pensò volesse fare un intervento e fece un cenno per dargli la parola. La platea si mosse girando indietro lo sguardo. Prese il cappotto e sistematolo sull’avambraccio, raccolse la borsa con l’altra mano e si diresse verso l’uscita, boccheggiando. Pochi istanti dopo, l’intervento riprese senza troppe attenzioni verso quella interruzione. Lo sguardo torvo di una hostess lo accolse mentre la porta gli si chiudeva dietro. Si sentì un formicolio alle gambe. Appoggiò le sue cose per terra, indossò il cappotto e si diresse al bar. Lei stava preparando le tazzine, per la miriade di caffè che avrebbe servito dopo il pranzo. Lui entrò trafelato. <<Il freddo si può respingere>> disse. La ragazza lo fissò senza realmente capire cosa intendesse dire con quella frase. <<Basta trovare qualcosa o qualcuno che ci dia calore>> continuò trascinandosi verso il bancone. <<Si sente bene?>> disse lei con voce grave e preoccupata. <<Ora si>> rispose lui, tirando fuori la sciarpa dal cappotto.

Contenuto in “Bassa Marea” raccolta di racconti, Voll 1. Copyright Historica Edizioni

7 thoughts on “La Sciarpa

  1. Che bello!

  2. Salve, siamo un team nuovo sul panorama delle recensioni letterarie e ci piacerebbe recensire il suo romanzo, già l’estratto è molto interessante. Se lo desidera ci può contattare al nostro indirizzo mail, a breve il nostro sito sarà online. Grazie per la collaborazione.

  3. Grazie a voi per la visita. In realtà non si tratta di un estratto bensì di un racconto breve già pubblicato in una collana. Tutte le info a piè di pagina. Saluti.

  4. Bella proff U.U

  5. Complimenti per il finale. Anche se inizialmente non si capisce perchè non si dichiari al bar, il finale è d’effetto. Speriamo di leggere ancora il sequel? Saluti

  6. Dai troppo carina…<3 ❤ ❤ ❤

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